La ragazza del treno (2016) - Retrospettiva a cura di Umberto Visani

 

la ragazza del treno

   

Genere: drammatico, thriller, giallo
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Durata: 112 minuti
Regia: Tate Taylor
Produttori: Marc Platt, Jared LeBoff
Casa di produzione: Universal Pictures, DreamWorks Pictures, Reliance Entertainment, Marc Platt Productions
Sceneggiatura: Erin Cressida Wilson (dal romanzo di Paula Hawkins)
Cast: Emily Blunt (Rachel Watson), Haley Bennett (Megan Hipwell), Rebecca Ferguson (Anna Boyd), Justin Theroux (Tom Watson), Luke Evans (Scott Hipwell), Allison Janney (sergente Riley), Édgar Ramírez (dott. Kamal Abdic), Lisa Kudrow (Martha), Laura Prepon (Cathy)


Trama:

Rachel Watson (Emily Blunt), giovane donna profondamente segnata da un matrimonio fallito, trascorre le sue giornate spostandosi in treno tra i sobborghi londinesi. Dal finestrino, ogni giorno osserva una giovane coppia che sembra incarnare e vivere la felicità da lei perduta. Quando Megan (Haley Bennett), la donna che ha idealizzato, scompare nel nulla, Rachel si ritrova invischiata in un’indagine che s’intreccia pericolosamente con i suoi ricordi, i sensi di colpa e le ombre del passato. La verità si farà strada a fatica, tra buchi di memoria, visioni e una realtà più cupa di quanto appaia.


Cosa ne penso (pochi spoiler):

Ho visto il film dopo aver letto il romanzo di Paula Hawkins da cui è stato tratto. Il libro non mi era piaciuto: scritto male, strutturato in maniera estremamente confusa con due voci narranti in tempi diversi, il che rendeva arduo seguire il dipanarsi della vicenda. La trama, però, mostrava dei buoni spunti per cui confidavo che la trasposizione filmica potesse essere esente da questi difetti.
Il film, infatti, riesce dove il romanzo non era riuscito, compiendo un miracolo narrativo e stilistico: prendere un’opera modesta e renderla un’opera cinematografica molto curata e spesso toccante. Il merito è in larga parte di Emily Blunt. La sua Rachel non è semplicemente un personaggio sconquassato da un passato non ben chiarito, ma una presenza inquieta che attraversa il film come un fantasma moderno, trascinata in un vagare continuo tra i binari dell’alienazione e del sospetto. Raffinata, dolente, fragile ma mai patetica, riesce a incarnare non solo la sofferenza individuale, ma anche una sorta di malessere collettivo, radicato nel paesaggio suburbano inglese. Non impersona Rachel: è Rachel, con una classe e una sobrietà che rimandano ai fasti del miglior cinema britannico, quello in cui emozione e stile non vengono urlati ma si insinuano.
Il regista Tate Taylor – qui più contenuto rispetto a lavori precedenti – evita lo spettacolo e preferisce la discrezione. La vicenda è più una spirale emotiva che un’indagine: un itinerario interiore che scava nel lutto, nella perdita, nell’identità frantumata, nel desiderio di redenzione che si scontra con una realtà opaca e crudele. Non c’è enfasi, ma una malinconia costante che avvolge tutto: non l’isteria del thriller americano, ma la glaciale compostezza di un cinema che osserva senza spiegare.
In questo senso, il film riesce dove molti falliscono: non cerca la verità nei fatti, ma nelle crepe della percezione. E si inserisce perfettamente nella tradizione dei noir psicologici più raffinati, dove a contare non è chi sia il colpevole, ma l’angoscia che accompagna la ricerca. Potremmo quasi leggerlo come un dramma bergmaniano travestito da giallo suburbano, dove l’alcol non è solo dipendenza, ma simbolo dell’impossibilità di vedere chiaramente.
Personalmente, trovo che questo film sia una di quelle rare eccezioni in cui l’adattamento cinematografico supera di gran lunga il testo letterario da cui nasce, e si emancipa da esso con intelligenza e gusto.

Il film piacerà a:
A chi ama i noir esistenziali, dove il delitto è solo un pretesto per sondare le crepe della psiche. A chi cerca un cinema introspettivo, che non offre eroi ma figure complesse. A chi vuole vedere un’attrice sublime reggere da sola un intero impianto narrativo con classe, misura e intensità. A chi apprezza una certa malinconia britannica che sa farsi stile.
 
Il film non piacerà a:
A chi cerca il ritmo serrato da thriller americano. A chi non ha pazienza per i personaggi contraddittori e preferisce i buoni per i quali tifare. A chi crede che un film debba spiegare tutto, subito.
 
Pregi:
Il film ha nel suo punto di forza la performance di Emily Blunt, intensa, capace di incarnare un dolore autentico senza mai scadere nella retorica. A questo si aggiunge una regia discreta ma attenta, una fotografia coerente con il tono narrativo, e una gestione dei flashback che, pur rimanendo fedele alla struttura del romanzo, evita la confusione e sa accompagnare lo spettatore nel labirinto della memoria.
 
Difetti:

Qualche passaggio resta debole nella transizione tra le sottotrame.
 
Lo consiglio? 





 (Retrospettiva a cura di Umberto Visani)



 
 


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