The Walking Dead: Daryl Dixon - Stagione 3

 

locandina della serie daryl dyxon


Recensione a cura di: Umberto Visani

Genere: Horror, dramma post-apocalittico
Paese di produzione: Stati Uniti
Piattaforma di distribuzione: AMC (USA), Sky Atlantic e NOW (Italia)
Episodi stagione 3: 7 episodi, durata media circa 50-55 minuti
Casa di produzione: AMC Studios
Ideatore: David Zabel (showrunner e creatore dello spin-off)
Produttori: Scott M. Gimple (chief content officer di The Walking Dead Universe), David Zabel, Norman Reedus, Greg Nicotero
Cast principale: Norman Reedus (Daryl Dixon), Melissa McBride (Carol Peletier), Clémence Poésy (Isabelle), Louis Puech Scigliuzzi (Laurent), Romain Levi (Codron)

Trama:

Daryl Dixon e Carol raggiungono Londra sperando di trovare un modo per tornare in America, ma scoprono una città completamente abbandonata e invasa dagli zombie. Intrappolati per giorni, incontrano un sopravvissuto solitario che possiede una barca a vela e si offre di portarli oltreoceano. Tuttavia, una tempesta devastante li fa naufragare sulle coste della Spagna.
Qui scoprono un paese frammentato dove piccole comunità sopravvivono grazie a un accordo con El Alcázar, una fortezza governata da Guillermo Torres, che si proclama ultimo erede della monarchia spagnola. In cambio di protezione dalle bande di predoni e dagli zombie, le comunità devono consegnare ogni anno delle giovani donne a El Alcázar.
Daryl vorrebbe solo riparare la barca e partire, ma Carol non può ignorare questa tradizione brutale. Tra attacchi di orde inferocite, conflitti con gruppi ostili e tensioni crescenti con El Alcázar, Daryl e Carol dovranno scegliere da che parte stare, sapendo che ogni scelta potrebbe allontanarli ancora di più dal loro obiettivo di tornare in America.



Cosa ne penso (pochi spoiler): 

C'è una ragione se Daryl Dixon continua a funzionare, anche dopo anni di parziale deriva del franchise: è un personaggio che vive di silenzi più che di pose, di lealtà più che di slanci, e per questo ogni suo spostamento geografico diventa una sorta di trasmigrazione interiore. Come l'Ulisse dantesco o il Kurtz conradiano, Daryl è un nomade esistenziale ma privo di hybris: non cerca la conoscenza assoluta ma soltanto una casa che continua a sfuggirgli, in un eterno differimento del ritorno che ricorda più l'Odissea che un road movie contemporaneo.
Per me, che The Walking Dead l'ho visto in piena pandemia gustando ogni episodio come un rito serale condiviso chiusi in casa, ritrovare Daryl significa ritrovare una parte emotiva molto precisa, una di quelle tracce che restano attaccate a ciò che guardiamo, ricordando e portando tutto dentro. La serialità televisiva ha questo potere quasi preterumano: diventa archivio affettivo, cronaca sentimentale mascherata da intrattenimento. E Daryl, con la sua postura contratta e il suo sguardo sempre altrove, è martire nel senso etimologico di testimone.
Questa stagione spagnola, pur non essendo perfetta, possiede un pregio fondamentale: crea atmosfera. La Spagna post-apocalittica non è solo cartolina o stereotipo: è un luogo in cui il paesaggio diventa stato d'animo, come nelle visioni desolate di McCarthy in La strada. Le scogliere frastagliate della Costa da Morte — nome che già di per sé è un presagio — i villaggi arroccati che sembrano usciti da un Goya cupo e visionario, le feste di paese mutate in rituali di sopravvivenza con echi di Midsommar e delle tradizioni ancestrali iberiche… tutto concorre a dare alla serie una tinta mediterranea, quasi malinconica, che le dona identità.
La première londinese è potentissima: un episodio oscuro, solido, con un ritmo da The Last of Us che ricorda quanto questo universo sappia ancora colpire quando si concede fragilità e desolazione. La Londra svuotata, spettrale, con i suoi monumenti ridotti a segnali inutili in un mondo che non sa più leggere i simboli, evoca le città morte di Ballard o le metropoli abbandonate della fantascienza britannica più cupa. C'è qualcosa di profondamente perturbante nel vedere il Big Ben — cuore pulsante dell'Impero che fu — trasformato in esca per morti viventi. È un'immagine che condensa tutto il discorso della serie: la civiltà come simulacro, la cultura come reliquia.
Poi, una volta arrivati in Spagna, il racconto si fa più intimo, più corale, meno ossessionato dai caminantes e più dalla crudeltà sociale che sopravvive alla fine del mondo. Qui la serie sembra dialogare con Saramago, con l'idea che il vero orrore non sia mai il mostro ma l'uomo con le sue strutture, il sistema che perpetua l'oppressione anche quando non c'è più nulla da opprimere. Il sistema feudale ricreato da El Alcázar è una parabola feroce sulla regressione politica, sul ritorno della Storia quando viene meno ogni contratto sociale.
La forza della stagione rimane il rapporto tra Daryl e Carol: un legame che non ha bisogno di romance né di dichiarazioni. Funziona perché è terreno condiviso, perché è famiglia scelta in un mondo che ti toglie tutto. Ogni loro dialogo, ogni silenzio, ogni decisione pesa. Ed è lì, in quella complicità adulta e ferita, che la serie trova la sua verità più sincera. Sono due sopravvissuti che hanno smesso di cercare risposte e si accontentano di condividere le domande. C'è qualcosa di beckettiano in questo stare insieme senza scopo, in questo Aspettando Godot ambulante dove la salvezza — l'America, casa — è sempre rimandata, sempre oltre l'orizzonte.
Gli antagonisti, forse, non spiccano; alcune dinamiche sembrano derivare da una mitologia che la serie non vuole approfondire fino in fondo. Guillermo Torres, con la sua pretesa monarchica, è più simbolo che personaggio: incarna la nostalgia reazionaria, il sogno autoritario di un ordine perduto. Ma manca di spessore tragico, di quella complessità che renderebbe il suo mondo credibile fino in fondo. Anche i Primitivos — tribù distruttiva che vuole cancellare tutto — restano accenno più che presenza, eco di una violenza ancestrale mai davvero indagata.
Ma c'è una coerenza emotiva, un respiro, un uso dei paesaggi e una maturità nei toni che rendono questa terza stagione un viaggio che — pur con sbavature — vale la pena affrontare. La fotografia gioca con le luci mediterranee, con i tramonti rossastri e le albe livide, creando un contrasto cromatico che è anche contrasto morale.
Non è un capitolo epocale, ma è un capitolo onesto, pregno dell'idea di ciò che resta dell'umanità quando la civiltà è solo un'eco lontana. Ed è esattamente lì che Daryl Dixon dà il meglio: nell'osservare i resti, nel sostare tra le rovine, nel chiedersi non cosa abbiamo perso ma cosa — incredibilmente, ostinatamente — continuiamo a difendere mentre tutto crolla, quando la storia è già scritta ma qualcuno continua a combattere non per vincere ma per significare qualcosa, per testimoniare che si era stati lì fino all'ultimo. Daryl e Carol sono soldati di una guerra probabilmente ormai perduta, custodi di un'umanità che forse non merita più di essere salvata. Eppure resistono. E in quella resistenza apparentemente inutile, disperata, quasi folle, c'è tutta la dignità che ci resta.


La serie piacerà a:
Chi ama Daryl come archetipo del viandante post-apocalittico, chi apprezza spin-off con una forte impronta atmosferica.

La serie non piacerà a:
Chi vuole il tono epico e corale delle prime stagioni di TWD. Chi non sopporta ambientazioni mediterranee un po’ romanzate.

Punti forti della serie:
Atmosfera spagnola affascinante e ottima fotografia. Buon cast di supporto, personaggi secondari ben delineati. Ritmo costante, senza filler inutili.

Punti deboli della serie:
Rappresentazione della Spagna a tratti folkloristica.

La consiglio? 






 Recensione a cura di: Umberto Visani




 
 




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