WAYWARD (2025) - Recensione Stagione 1
Recensione a cura di: Umberto Visani
Genere: Drammatico, Mistero, thriller psicologico
Paese di produzione: Canada, Stati Uniti, Regno Unito
Piattaforma di distribuzione: Netflix (dal 25 settembre 2025)
Episodi Stagione e durata media: 1 stagione, 8 episodi, durata media circa 45 minuti
Casa di produzione: Netflix, Objective Fiction, Sphere Media
Ideatore: Mae Martin (anche co-sceneggiatore e interprete)
Produttori: Mae Martin, Ryan Scott, Mohamad El Masri, Alex Eldridge, Kayla Lorette, Evangeline Ordaz, Misha Osherovich, Kim Steele
Cast principale: Mae Martin (Alex Dempsey), Toni Collette (Evelyn Wade), Sarah Gadon (Laura Redman), Sydney Topliffe (Abbie), Alyvia Alyn Lind (Leila), Brandon Jay McLaren (Dwyane Andrews), Tattiawna Jones (Rabbit), Isolde Ardies (Stacey), Joshua Close (Duck), Patrick J. Adams (Wyatt Turner), Patrick Gallagher (Bartell), Gage Munroe (Riley), Byron Mann (Brian)
Trama:
Un paese sospeso tra normalità apparente e inquietudine latente, in cui un istituto esercita un’attrazione ambigua e perturbante. Toni Collette (Evelyn) vi interpreta una figura centrale, carismatica e temibile, il cui potere sui ragazzi è al tempo stesso affascinante e inquietante e fa subito comprendere come sotto la superficie ordinata si nascondano dinamiche misteriose e manipolazioni sottili. Al contempo, Alex, poliziotto locale, e sua moglie Laura si trovano coinvolti in maniera ambigua: il loro legame personale e il ruolo di Laura, connessa in modi imprevisti all’istituto, complicano ulteriormente la rete di segreti e tensioni che avvolge il luogo e plasma chi vi entri.
Mi sono avvicinato a Wayward attratto dal titolo, che inevitabilmente evocava Wayward Pines di Blake Crouch, e incuriosito dai paragoni con Twin Peaks che già circolavano tra recensioni e anticipazioni. L’idea di un luogo chiuso, di enigmi sospesi tra realtà e sogno, e della possibilità di un mistero metafisico che si snodasse tra le pieghe della mente mi aveva stuzzicato. Questa sensazione di attesa e sospensione era intensa e seducente: speravo di attraversare un territorio narrativo dove ogni gesto e ogni silenzio fossero carichi di un senso di minaccia invisibile, dove la quotidianità si piegasse a una logica segreta e misteriosa. La sorpresa — che non considero una delusione, ma piuttosto un chiarimento necessario — è stata scoprire che la serie segue una sua orbita autonoma: non esiste un paese chiuso, né enigmi metafisici sospesi tra sogno e veglia; esiste un istituto, un microcosmo che funziona come laboratorio psicologico, dove le regole del potere, della manipolazione e del controllo delle menti sono applicate con precisione inquietante. I richiami a Lynch o a Crouch diventano allora più suggestivi che sostanziali, al massimo evocativi più che concreti, e l’osservatore colto deve abbandonare ogni attesa di facile parallelismo.
L’inizio della serie è magistrale: inquietante, sottile, con un senso di straniamento che richiama i racconti di Shirley Jackson, Ramsey Campbell o M. R. James, dove la minaccia non è mai immediata ma palpabile, insinuata nei dettagli più minuti, negli spazi ordinari che improvvisamente respirano alterità.
I flashback sul passato di Evelyn (Toni Collette) aggiungono un livello ulteriore di inquietudine: vi compare una figura maschile carismatica e oscura, la cui influenza nella giovinezza della protagonista suggerisce archetipi di leader settari o manipolatori di tipo mansoniano. Non si tratta di un riferimento diretto, ma di un eco narrativo che mostra come Evelyn abbia osservato e interiorizzato comportamenti legati al potere, alla seduzione psicologica e alla persuasione emotiva, plasmando in parte il suo carattere e la sua capacità di controllo sugli altri. Questi ricordi contribuiscono a dare profondità al personaggio, spiegando senza raccontare tutto il magnetismo inquietante e il senso di autorità che esercita nell’istituto.
Tuttavia, quando la narrazione decide di svelare i meccanismi, parte di quell’incanto iniziale si dissolve: il “come” diventa procedura, la magia dell’inspiegabile si frammenta in chiarimenti, e la tensione cede il passo alla logica narrativa. È un cedimento che, seppur comprensibile (per quanto personalmente non condivisibile), lascia un senso di nostalgia per il mistero puro che aveva animato le prime fasi.
Eppure, Wayward conserva una forza notevole. Toni Collette domina lo spazio scenico con una presenza magnetica, capace di incarnare al contempo fascino e minaccia, controllo e vulnerabilità. Le dinamiche psicologiche degli adolescenti, intrecciate con il potere implacabile dell’istituto, offrono un terreno fertile per riflessioni su identità, manipolazione e fragilità dell’animo umano. La serie, pur perdendo qualche colpo sul piano del mistero assoluto, mantiene un suo fascino ammaliante: è un horror che non urla, che non mostra apertamente, ma fa percepire, insinua. È un’arte sottile, fatta di attese, sospensioni e percezioni sfumate, che richiama la letteratura gotica e il weird, dove la minaccia non è necessariamente visibile, ma si avverte come presenza costante dietro ciò che appare ordinario.



Commenti
Posta un commento