Dexter - (2006-2013) - Recensione a cura di Umberto Visani
Genere: drammatico, poliziesco, thriller, giallo
Paese di produzione: Stati Uniti
Stagioni ed episodi: 8 stagioni, 96 episodi
Casa di produzione: Showtime
Ideatore: James Manos Jr.
Produttori: Daniel Cerone, Clyde Phillips, John Goldwyn, Sara Colleton
Cast principale: Michael C. Hall (Dexter Morgan), Jennifer Carpenter (Debra Morgan), David Zayas (Angel Batista), Lauren Vélez (Maria LaGuerta), James Remar (Harry Morgan), C.S. Lee (Vince Masuka), Desmond Harrington (Joey Quinn), Julie Benz (Rita Bennett), Erik King (James Doakes), Geoff Pierson (Thomas Matthews), Aimee Garcia (Jamie Batista).
Trama:
Dexter Morgan (Michael C. Hall) lavora come ematologo forense per la polizia di Miami. Preciso, silenzioso, scrupoloso, è il collega e fratello perfetto di Debra (Jennifer Carpenter), agente della squadra omicidi. Ma dietro l'apparente normalità, Dexter nasconde una doppia vita: è un serial killer. Segue, però, un rigido codice morale impartitogli da suo padre adottivo, Harry (James Remar), ex poliziotto, che gli ha insegnato a canalizzare i suoi istinti omicidi verso criminali che sono sfuggiti alla giustizia. La serie segue Dexter attraverso otto stagioni (e un sequel recente, in attesa, l’11 luglio, del nuovo Dexter Resurrection), tra indagini, doppiezze, relazioni sentimentali tormentate e una costante, devastante tensione tra ciò che appare e ciò che è realmente.
Sono in fremente attesa del sequel Resurrection, perché quando una serie ha toccato certe vette di complessità e di inquietudine, non si smette di aspettarne il ritorno, per quanto il rischio del passo falso possa essere sempre in agguato.
Dexter è una serie sorprendente per la produzione televisiva americana, perché scardina la tradizionale contrapposizione Bene/Male tipica del racconto statunitense. Qui ciò che appare "Bene" – un uomo che uccide solo colpevoli – è in realtà un cospicuo "Male", seppure esercitato a fin di "bene". La giustizia privata come catarsi impossibile. Da questa dicotomia nasce un personaggio complesso, emotivamente e mentalmente disturbato, borderline in ogni fibra del suo essere. Un uomo che ha interiorizzato il trauma e lo ha trasformato in regola, ma una regola patologica, che genera altre fratture.
Dexter è un’emanazione dell’ambiguità etica in cui siamo immersi. Le sue relazioni – spesso con donne affascinanti e problematiche – sono sintomo della sua irrisolutezza. Ogni legame è un esperimento fallito, una prova d'identità che termina nel sangue o nell’abbandono. Ma non c’è mai morbosità gratuita: c’è il senso tragico del non poter essere altro da sé. E nel rifiuto della redenzione si trova la vera forza drammatica della serie.
Lo spettatore è costretto a condividere questo spaesamento. Dexter è “cattivo”, ma lo seguiamo. È un carnefice, ma ne comprendiamo la logica. La serie ci mette davanti a una domanda brutale: esiste un ordine superiore a quello della legge? O la legge, come tutto il resto, è una forma di ipocrisia condivisa? In questo, la serie offre spunti per una lettura trasversale, sociologica, filosofica.
È un noir che ha il coraggio di mostrarsi come tale, con un impianto quasi greco nella sua ineluttabilità tragica. E Michael C. Hall regala una performance che resterà scolpita nella storia della serialità: trattenuta, tormentata, mai compiaciuta. Una maschera di cera sotto cui si intravede l’urlo di un’anima senza pace.
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