True Detective - Stagione 1 (2014) - Recensione a cura di Umberto Visani
Genere: Drammatico, Crime, Antologico
Paese di produzione: Stati Uniti
Distribuzione in Italia: Sky Atlantic, dal 3 al 24 ottobre 2014
Episodi e durata: 8 episodi, ciascuno della durata di circa 60 minuti
Casa di Produzione: HBO
Produttori: Nic Pizzolatto, Cary Joji Fukunaga, Scott Stephens, Matthew McConaughey, Woody Harrelson
Ideatore: Nic Pizzolatto
Cast principale: Matthew McConaughey (Rustin Cohle), Woody Harrelson (Martin Hart), Michelle Monaghan, Michael Potts, Tory Kittles
Trama:
Louisiana, 1995. Due detective della omicidi, Rustin “Rust” Cohle (Matthew McConaughey) e Martin Hart (Woody Harrelson), si trovano a indagare su un efferato omicidio rituale: una donna viene ritrovata nuda, con corna di cervo sulla testa e simboli inquietanti. L’indagine si snoda lungo diciassette anni, in un’America torbida, ammorbata da un’oscurità onnipervasiva. L’indagine porta Rust e Marty a confrontarsi non solo con una cospirazione orrorifica legata a riti ancestrali e a una setta che affonda nel pantano sociale e metafisico del Sud americano, ma anche – e soprattutto – con le proprie ombre, con una verità più profonda, nera, e radicalmente esistenziale.
La prima stagione di True Detective non è una semplice crime story. È un labirinto gnostico travestito da thriller. Una teogonia travasata in un noir esistenziale. Il tempo non è né circolare né redentivo, ma ciclico, ipnotico. La realtà, una trappola. Il detective Rustin Cohle non è un uomo comune ma un soggetto di intelligenza sopraffina, uno che ha varcato la soglia del velo di Maya e ha visto ciò che sta dietro: orrore puro, una struttura cosmica meccanica, impersonale, popolata da marionette convinte di avere libero arbitrio.
Si è molto parlato, giustamente, delle influenze letterarie: Chambers, Ligotti, Lovecraft. Ma la vera anima della serie è gnostica: l’universo è governato da un principio di disordine, e l’uomo che se ne accorge non diventa un eroe, ma un consapevole destinato alla dannazione. È la figura dello psiconauta oscuro, che attraversa il deserto del Reale e ne riporta indietro una testimonianza che non salva, ma almeno chiarisce.
L’universo simbolico della serie ruoti attorno a un culto pre-cristiano, forse pre-umano, che sopravvive nelle pieghe più oscure della società statunitense. Non si tratta solo di omicidi rituali, ma di un’eresia antropologica.
In questo senso, True Detective è anche una critica implacabile alla narrazione poliziesca classica, che presuppone ordine e razionalità. Qui l’ordine è illusione, e la ragione uno strumento che può solo far constatare la propria impotenza. L’indagine non porta chiarezza, ma solo ulteriori strati di oscurità. Eppure – ed è qui il nodo tragico – non possiamo smettere di cercare. Anche sapendo che la verità ci distruggerà.
La vera forza della serie risiede nel suo rifiuto del manicheismo. Non ci sono buoni. Non ci sono cattivi. Cohle e Hart non sono eroi, e nemmeno antieroi. Sono uomini divisi, frantumati, infedeli persino a se stessi. Marty, con la sua maschera da “americano medio”, è forse più compromesso di Rust, che ha almeno il coraggio di guardare in faccia il nulla. E Alice – figura mancante ma simbolicamente presente – è la consapevolezza silente che tutto ciò che l’uomo tocca è destinato a marcire.
True Detective ci dice che il Male non è un errore, ma un fondamento. E che ogni tentativo di redenzione non è che una forma di abbellimento del delirio. Eppure, nonostante tutto, alla fine resta uno spiraglio. Una stella nel buio. La possibilità, remota e tragica, che l’uomo – pur dentro la spirale – possa comunque scegliere. Non la salvezza, ma almeno una forma di dignità nell’abisso.
“Il peggiore tipo di prigione è quella che non sembri tale”: è questa la Louisiana – metafora dell’intero Occidente – nella quale si muovono personaggi alienati, che fingono identità, ruoli, appartenenze. L’io stesso è un travestimento.
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